15 maggio 2025

Quanto Costa Il Rispetto

In un mondo che ascolta chi sbuffa e ignora chi suda, il rispetto verso chi lavora diventa un atto rivoluzionario.



C'è qualcosa che si è spezzato, e nessuno ha sentito il rumore.
Un filo invisibile che un tempo univa chi offriva un servizio e chi lo riceveva.
Oggi quel filo sembra solo una corda tesa pronta a spezzarsi al primo sbuffo.

Non si tratta di crisi. Non si tratta nemmeno di lavoro.
Il vero punto non è il mestiere che si fa, ma il modo in cui si guarda chi lo fa.

Viviamo un’epoca strana:

Si ha più pazienza per una macchina lenta che per una persona gentile.
Più empatia per un pacco in ritardo che per chi lo consegna sotto la pioggia.
Chi suda otto ore viene ascoltato meno di chi sbuffa per cinque minuti.
È come se la stanchezza vera non facesse più rumore abbastanza da essere riconosciuta.

Ma non è una questione di clienti, né di cassieri, operai, commessi o addetti.
Qui si parla di qualcosa di più profondo: 

Di come si tratta un essere umano che sta lavorando.

Perché si può anche essere stanchi, frustrati, avere avuto una giornata pesante.
Ma non dovrebbe mai diventare un diritto quello di scaricare il peso sugli altri.

Eppure accade ogni giorno.

Accade quando si pretende, quando si comanda con gli occhi, quando si chiede come se fosse un favore concesso, non un dialogo tra pari. Accade quando si dimentica che 

dietro ogni divisa, ogni badge, ogni sorriso forzato… c’è una storia.

Una storia fatta di conti da pagare, figli da crescere, sogni messi in pausa e magari anche un mal di testa che non si può permettere di durare più di cinque minuti.

Il problema è culturale.
È nella convinzione, non detta ma interiorizzata, che chi lavora al servizio degli altri “debba” farlo. 

Che se sbaglia, è incompetente. 
Che se risponde, è maleducato.
Che se non sorride, ha qualcosa che non va.

E allora, come spesso accade nei paradossi moderni, non è il comportamento maleducato a essere messo in discussione… ma chi lo subisce.
Così succede che il lavoratore venga rimproverato da un capo che non era presente, ma che crede ciecamente a chi urla più forte. Perché, si sa, “il cliente ha sempre ragione”.
Anche quando ha solo fretta, rabbia o un ego troppo grande da contenere in una corsia.

Eppure, la verità è semplice. La verità è che chi lavora non chiede applausi, ma rispetto.
E il rispetto non è una mancia, non è un premio. È un dovere reciproco. 
Una forma minima di civiltà.

Trattare con rispetto chi lavora non dovrebbe essere un gesto straordinario.
Dovrebbe essere il punto di partenza.

Chi lavora con dignità è già un esempio.
Chi regge pazientemente, ogni giorno, le frustrazioni altrui senza restituirle indietro, è già un piccolo eroe silenzioso.
Chi lavora non “deve” essere gentile: sceglie di esserlo, ogni giorno, nonostante tutto.

E allora la domanda è semplice, ma potente.
Una domanda che dovremmo portarci dietro ogni volta che incrociamo uno sguardo stanco dietro a un banco, a una scrivania, o in un magazzino:

Quanto costa, oggi, trattare un lavoratore come una persona?

Se la risposta non è “niente”… allora il vero problema non è il lavoratore. 
Siamo noi.



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Frank Perna

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