Dietro il mito del Far West, una riflessione su quanto la vita sia fragile, imprevedibile e incredibilmente reale.
Quando pensiamo al West, la mente corre subito alle immagini scolpite dal cinema: il saloon, il cavallo legato alla staccionata, lo sceriffo con la stella sul petto, le sfide all’alba sotto un sole impietoso. Una visione che ci ha sempre raccontato l’epopea della frontiera come un teatro di eroi e fuorilegge, pistole fumanti e giustizia sommaria. Ma raramente ci si sofferma su un altro aspetto: il West era un luogo dove si moriva per qualsiasi cosa.
E non solo per una pallottola.
Si poteva morire cadendo da cavallo, per un’infezione banale senza cure, per un morso di serpente, per una scivolata su un sentiero di montagna. Bastava una distrazione, una coincidenza sbagliata, una notte troppo fredda. La vita, in quell’epoca, era appesa a un filo sottile. E in fondo, non c’era niente di romantico in tutto questo.
È interessante riflettere su come, nel tempo, quella realtà ruvida e pericolosa sia stata addolcita dalla narrazione popolare. Film, romanzi, giochi ci hanno consegnato un immaginario preciso, ma l’umanità vera di quel periodo – fatta di paura, di sopravvivenza quotidiana, di errori che si pagavano con la vita – resta spesso sullo sfondo.
Il pensiero, allora, si allarga.
Perché oggi ci indigniamo davanti alla fragilità della nostra epoca, eppure dimentichiamo che vivere è sempre stato un atto precario. Cambiano gli scenari, le tecnologie, i rischi. Ma la vulnerabilità umana è rimasta la stessa.
Nel West si moriva per poco. E oggi?
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Frank Perna
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