02 giugno 2025

Una Nazione Divisa Da Una Palla

Quando il calcio smette di unire e diventa il riflesso amaro di una società che dimentica l'umanità per novanta minuti.



Nel giorno in cui un Paese celebra simbolicamente l’unità nazionale, l’immagine più autentica che scorre sui social, nei bar e nei salotti italiani è quella di una nazione divisa come non mai. Non lungo i confini geografici, ma lungo quelli invisibili e infuocati delle tifoserie.

Un paradosso tutto italiano: si celebra la Repubblica mentre ci si odia per una squadra di calcio. Eppure, se lo si guarda da fuori, questo fenomeno non ha nulla di straordinario. Succede da sempre. Ma qualcosa, oggi, ha cambiato forma. O forse solo si è mostrato per quello che è. Il calcio, in teoria, dovrebbe unire. Dovrebbe emozionare, far sognare, creare comunità. Ma oggi, per molti, non è più la passione per la propria squadra, bensì l’ossessione di vedere l’altra perdere.

Non si tifa per. Si tifa contro. E c’è un abisso tra le due cose. Uno sport che una volta accendeva il cuore, oggi incendia i nervi. Si ride, sì, ma non per un gol all’ultimo secondo: si ride per la delusione altrui, si gode dell’umiliazione di chi indossa un’altra maglia. Come se il dolore sportivo degli altri fosse una vittoria personale.

Lo hanno sempre chiamato così, “sfottò”. Una parola che vuole sembrare simpatica, folkloristica. Ma dietro lo sfottò c’è spesso disprezzo, odio, razzismo, classismo. C’è la voglia di ferire. C’è l’assenza totale di empatia. C’è l’illusione che per sentirsi meglio qualcun altro debba stare peggio. E a ogni generazione, si spinge sempre un po' oltre. Gli striscioni diventano più volgari. I cori, più violenti. I commenti, più velenosi. Sui social, ormai, non si parla di sport. Si vomita.

Il paradosso più surreale di tutti è che chi ci rimette davvero non è in campo. Il giocatore, anche se perde una finale, prende lo stesso milioni. Va in vacanza, firma autografi, firma un altro contratto. A soffrire è chi lo guarda, chi si spreme, chi si arrabbia, chi insulta, chi spaccherebbe una vetrina per un fallo laterale. A soffrire è il tifoso qualunque, che il giorno dopo deve svegliarsi presto, lavorare, portare avanti una famiglia. Con la voce rotta, il cuore pesante, e magari pure una multa per eccesso di zelo "sportivo".

Eppure oggi è il 2 giugno. La festa della Repubblica. Un giorno nato per ricordarci che, anche se diversi, siamo uniti. Che la nostra forza dovrebbe essere il senso di collettività, non la fazione. E invece proprio oggi, in questa data simbolica, gli italiani si insultano a vicenda per una partita, per un gol sbagliato, per uno scudetto vinto da “quelli là”. Come se la vittoria altrui fosse un affronto personale. Come se un logo su una maglia potesse misurare il valore di una persona.

Una volta, perdere faceva parte del gioco. Oggi, perdere è un’onta. Vincere, un’ossessione. Il calcio, da rito collettivo, si è trasformato in una guerra culturale. Non più un campo verde, ma un’arena dove riversare le rabbie represse, la frustrazione sociale, il bisogno di sentirsi "superiori" a qualcuno, chiunque. E tutto questo per cosa? Per undici sconosciuti che corrono dietro a un pallone?

Forse, oggi, la vera domanda da farsi non è "chi ha vinto?"
Ma: "Chi siamo diventati mentre tifavamo?"
Perché non è più questione di sport. È questione di civiltà. Di cultura. Di rispetto.
Di quella cosa che oggi chiamiamo “umanità” e che, a quanto pare, a volte perdiamo per novanta minuti.

E no, questo non è buonismo.
È solo un tentativo di portare luce dove da troppo tempo si alimenta solo buio.

Questo non è un manifesto contro il tifo.
È solo un invito alla consapevolezza.
Un promemoria per chi sente che qualcosa non va, ma non riesce a metterlo a fuoco.
Perché non c’è nulla di nobile nel distruggere chi tifa diversamente da te.
E non c’è nulla di umano nel ridere del dolore altrui, anche se “è solo calcio”.

È solo una palla. Ma gira in un mondo che abbiamo riempito di rancore.
Sta a noi decidere in quale direzione farla rotolare.



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Frank Perna

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