La qualità della vita non si misura in latitudine. Conta il territorio, l’amministrazione, le persone. Il resto è solo propaganda.
C’è una storia che ci siamo sentiti raccontare fin da piccoli. Una storia semplice, apparentemente logica, comoda da trasmettere e ripetere: che nelle regioni del Nord tutto funziona, che lì si vive bene, che è il luogo dove tutto accade nel modo giusto. E che al contrario, scendendo verso Sud, si entra in un territorio problematico, dove le cose non funzionano, dove il disordine e l’inefficienza regnano sovrani.
Una narrazione portata avanti per decenni, sedimentata nelle menti di intere generazioni. Ma forse è arrivato il momento di fermarsi e chiedersi: è davvero così? O è solo l’effetto di una propaganda ben costruita e mai più messa in discussione?
Non si tratta di fare un confronto o alimentare tensioni. Non si tratta neppure di voler dimostrare che una parte d’Italia sia migliore dell’altra. Si tratta piuttosto di aprire gli occhi su una verità molto più concreta e diffusa: oggi più che mai, non è la posizione geografica a determinare la qualità della vita, ma il modo in cui i territori sono amministrati.
Chi ha vissuto in più luoghi, chi ha viaggiato o semplicemente si è spostato anche solo per qualche tempo, lo sa: ci sono piccoli centri, lontani dai grandi flussi urbani, che funzionano come orologi. Comunità solide, servizi pubblici efficienti, qualità dell’aria, accessibilità, sanità, trasporti e scuola ben organizzati. E tutto questo accade sia sopra che sotto certe coordinate. Allo stesso modo, ci sono grandi città – e non importa dove siano localizzate – in cui il disservizio, il degrado e l’abbandono sono realtà quotidiane.
La geografia è solo una cornice. Ma è la gestione del territorio a fare la differenza.
Oggi i comuni italiani hanno in mano la responsabilità diretta di molti dei servizi essenziali per la vita dei cittadini. E quindi, la qualità della vita non si misura con una bussola, ma si percepisce nelle piccole cose: nei trasporti che arrivano puntuali o che non passano mai, nella scuola pubblica che accoglie i ragazzi o li lascia al margine, nell’accesso alla sanità, nella cura degli spazi pubblici, nella sicurezza che si respira per le strade.
Ci sono realtà, in ogni parte d’Italia, che funzionano. E altre che non ce la fanno. E la differenza non sta nelle origini, nella cultura o nelle radici storiche. Sta nella capacità di amministrare, nella volontà di fare rete, nella partecipazione dei cittadini. Perché un territorio ben gestito genera benessere, mentre uno lasciato a sé stesso rischia di alimentare disagio, abbandono e in certi casi anche criminalità.
Ed è qui che va sfatato il grande mito. Non esiste un punto cardinale che garantisca il buon vivere. Non esiste una zona “salva” e una zona “perduta”. Esistono piuttosto condizioni locali, esistono persone che fanno la differenza, esiste una complessità sociale e amministrativa che non può più essere banalizzata da slogan o luoghi comuni.
Questa riflessione non vuole essere né una difesa né un’accusa. Vuole solo riportare l’attenzione su ciò che davvero conta: le esperienze reali. Perché chi vive in un territorio che funziona non ha bisogno di racconti mitizzati. E chi vive in una zona in difficoltà sa che le sue problematiche non dipendono da una latitudine sfortunata, ma da un contesto che può (e deve) cambiare.
L’Italia non è divisa tra chi è meglio e chi è peggio. È piuttosto un mosaico disomogeneo, fatto di zone dove si vive bene e altre dove si sopravvive, distribuite senza un vero ordine logico su tutta la penisola.
Se potessimo guardare la nostra nazione senza i confini amministrativi, senza i pregiudizi, senza le bandiere locali, vedremmo qualcosa di molto più onesto: un’Italia fatta a chiazze. Dove convivono eccellenze e disastri, luoghi straordinari e luoghi dimenticati, in ogni regione.
E forse è proprio da qui che dovremmo ripartire. Dall’idea che non serva difendere la propria terra a spada tratta, né accusare quella degli altri. Ma riconoscere le differenze vere, imparare da ciò che funziona e contribuire – nel nostro piccolo – a costruire territori migliori.
Non si tratta solo di patriottismo, né di voler appiattire tutto in un discorso buonista. Si tratta di aprire gli occhi, di vedere con lucidità, di smettere di cercare risposte comode. Perché in fondo, il senso di appartenenza non nasce dall’esclusione dell’altro, ma dalla capacità di sentirsi parte di qualcosa di più grande, senza perdere l’orgoglio della propria origine.
Ed è così che si supera una propaganda. Non combattendola con un’altra. Ma raccontando quello che c’è davvero, al di là dei racconti e dei titoli facili.
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Frank Perna
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