20 maggio 2025

Il fascino dell’ingombro

Quando la tecnologia si fa piccola, ma lo stile sceglie di occupare spazio. Un paradosso che racconta molto di noi.



Nel cuore dell’evoluzione, la tecnologia ha sempre avuto un obiettivo chiaro: ridurre, comprimere, snellire. Più piccola, più veloce, più efficiente.
Dove un tempo servivano stanze intere per far girare un computer, oggi basta un chip minuscolo. Dalle televisioni a tubo che sembravano armadi, siamo passati a schermi piatti che sfiorano il vetro come seta. Gli hard disk hanno lasciato spazio a microscopiche schede di memoria, capaci di contenere intere biblioteche. L’evoluzione si muove verso l'invisibile.

Eppure, qualcosa di curioso accade sotto gli occhi di tutti: più la tecnologia si fa sottile, più alcuni oggetti sembrano voler tornare… a occupare spazio.
Un paradosso che non nasce da un'esigenza tecnica, ma da un bisogno simbolico, culturale, forse persino affettivo.

C'è stato un tempo in cui indossare delle cuffie significava portarsi addosso due piccole casse stereo collegate da una fascia rigida che attraversava la testa. Poi è arrivato il tempo degli auricolari: invisibili, leggeri, comodi. Oggi? Tornano le cuffie grandi, ingombranti, appariscenti. Non perché servano, anzi, molti modelli non offrono neppure un audio superiore, ma perché si vedono, si sentono. In tutti i sensi.

Non è un caso isolato.
Accade anche con le fotocamere: dopo anni passati a miniaturizzare l’obiettivo dentro a uno smartphone, ecco rispuntare le reflex a tracolla. Non per necessità, ma per gusto. Le console da gioco diventano tascabili, ma rispunta la voglia di cabine arcade, joystick giganti, suoni che fanno vibrare le mani. Gli orologi smart contano i passi e leggono il battito, ma i modelli classici, enormi, meccanici, a vista, ritrovano un’anima nuova nei polsi di chi cerca qualcosa che duri.

La moda non è esclusa. Dopo decenni di tagli asciutti e minimalismo, ecco tornare le giacche oversize, le spalle larghe, i pantaloni larghi. Come se l’essere umano, in un mondo sempre più smart, sentisse il bisogno di lasciare una traccia più evidente della propria presenza. Un gesto, forse, per non scomparire in un flusso di dati sempre più veloci, più leggeri, più impalpabili.

C'è un che di poetico in tutto questo.
La corsa verso il minimo, interrotta da un ritorno all'ingombro.
Una memoria che torna visibile.
Un modo per dire: “Sì, ci sono anch’io”.

E allora quel paradosso, che prima sembrava solo un’anomalia, comincia ad assomigliare a una piccola ribellione dell’anima.
In un mondo che vuole farsi sempre più invisibile, qualcuno sceglie di farsi notare.
E non è una semplice questione di stile: è una dichiarazione esistenziale.

Perché forse, dopo tutto, l’ingombro non è solo peso.
È anche presenza.



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Frank Perna

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