Quando la cortesia grammaticale diventa un generatore di equivoci quotidiani.
In un’epoca in cui si accorcia tutto, le distanze, le parole, le attenzioni, resiste con tenacia un pronome che non si arrende: il Lei.
Formalità antica, rispetto invecchiato bene, segno di buona educazione… ma anche, diciamolo, uno dei più grandi produttori di equivoci grammaticali del mondo moderno.
Il cortese paradosso del pronome
Il "Lei" nasce con ottime intenzioni: è un segnale di rispetto, un modo elegante per parlare a chi non si conosce, una distanza cortese che protegge entrambe le parti.
Ma sotto sotto, ha un difetto invisibile ma letale: è ambiguo.
Basta osservare scene comuni, situazioni all’apparenza innocue, per rendersene conto.
Farmacia, giovedì mattina
Un signore entra per acquistare un farmaco per la moglie. La farmacista, gentile e formale, si rivolge a lui chiedendo se “prende qualcosa di regolare”.
L’uomo però rimane interdetto:
per un attimo non capisce se si sta parlando di lui o della moglie.
per un attimo non capisce se si sta parlando di lui o della moglie.
Si guarda intorno, poi verso la consorte seduta poco distante, e inizia a chiedersi se il “Lei” in quella frase si riferisse a lui o a lei. Nel dubbio, risponde con un vago “qualcosa prendiamo”, che nella nebbia del pronome, andava bene per tutti.
Poste italiane, sportello 3
Una signora e sua figlia sono in fila per ritirare una raccomandata.
Quando arriva il loro turno, l’impiegato, intento a mantenere una certa formalità, chiede che “serve un documento di lei”.
A quel punto, la madre guarda la figlia, la figlia guarda la madre. Entrambe esitano.
Chi è “lei”? La madre? La figlia? L’intuizione comune è che, forse, sarebbe meglio mostrare entrambi i documenti… o magari nessuno e tornare domani.
Il fascino tragicomico del fraintendimento
Il bello è che nessuno ha davvero torto.
È il linguaggio stesso che, nel tentativo di vestirsi di buone maniere, inciampa nei suoi stessi pantaloni stirati.
E così il "Lei", che dovrebbe facilitare il rispetto, rischia a volte di diventare una maschera.
Una di quelle maschere così ben fatte che confondono chi la indossa e chi la osserva.
Una distanza che non sempre avvicina
In fondo, ciò che dovrebbe essere uno strumento di gentilezza finisce, talvolta, per costruire una distanza fredda e impersonale.
Non perché sia sbagliato usarlo, anzi, in molti contesti è indispensabile,
ma perché ci si dimentica che la vera cortesia non risiede nei pronomi, ma nelle intenzioni.
Puoi dire “tu” con affetto, o “lei” con diffidenza.
Puoi chiamare qualcuno “signore” e trattarlo come un semplice numero, oppure “amico mio” e rispettarlo con tutta l’anima anche senza conoscerlo veramente.
Riflessione finale
Il “Lei” non è il problema.
È solo che, a volte, si comporta come se lo fosse.
Perché può bastare una frase, anche la più innocente,
e quel pronome si aggroviglia tra formalità e fraintendimenti,
e quel pronome si aggroviglia tra formalità e fraintendimenti,
lasciando tutti a chiedersi: “Ma con chi sta parlando?”
E allora, in un mondo dove i malintesi vanno già di moda, forse la domanda più onesta,
quella che può evitare un romanzo intero, è anche la più semplice:
quella che può evitare un romanzo intero, è anche la più semplice:
“Possiamo darci del tu?”
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Frank Perna
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