08 giugno 2025

Tenere le persone separate: un ordine che parla di noi

Quando tenere separati i mondi che ci circondano diventa un modo per ritrovarci, proteggerci e, forse, conoscerci meglio.



C’è un gesto silenzioso che molti compiono senza neanche accorgersene: quello di tenere separate le persone della propria vita. Non per cattiveria, non per vergogna, non sempre per strategia. Semplicemente… per equilibrio.
Ci sono gli amici di sempre, quelli che conoscono la versione più autentica di noi. Poi ci sono i colleghi, con cui condividiamo ritmi, obiettivi e pause caffè. E poi ancora conoscenti nuovi, magari appena entrati, ma già in una categoria a sé. Eppure, raramente li facciamo incontrare. O, se lo facciamo, c’è sempre un sottile disagio, come se si stesse violando un confine invisibile.

Ma perché accade tutto questo?

Forse perché ognuno di noi ha più volti, più identità, più linguaggi. E ogni contesto ne attiva uno. Mescolare i gruppi, a volte, significa sentirsi messi a nudo. Come se ognuno potesse vederci da angolazioni che non avevamo previsto, in una sorta di corto circuito emotivo e sociale.

Maschere o protezione?

Qualcuno potrebbe dire che questo è un segno di incoerenza. Altri, più indulgenti, lo chiamerebbero adattamento.
La verità è che nessuno è identico in ogni situazione. C’è chi con un vecchio amico può permettersi di essere vulnerabile, diretto, imperfetto. E c’è chi, in ambito lavorativo o in ambienti più “formali”, indossa un tono diverso, un comportamento più filtrato. È naturale. È umano.

Non sempre si tratta di falsità. A volte è semplicemente una questione di comodità emotiva. Di sapere come muoversi. Di sentirsi al sicuro nel ruolo che si sta ricoprendo. Mischiare quei mondi significa anche mischiare quelle versioni. E allora, forse, la vera domanda non è “perché lo facciamo?”, ma piuttosto: “Cosa proteggiamo separando i nostri mondi?”

Un fatto di identità?

Forse sì. Forse dividere le persone è un modo per difendere anche le nostre sfaccettature più fragili. Quelle che emergono solo con chi ci conosce da anni. O quelle che ancora non siamo pronti a mostrare a tutti.
Perché ci sono persone che, con la loro sola presenza, ci fanno essere diversi. Non migliori o peggiori, solo… diversi.

Allora il tenere le persone in compartimenti stagni diventa un modo per preservare un equilibrio interno. Un ordine nel caos delle relazioni.
Una linea invisibile che, se oltrepassata, rischia di confondere le dinamiche. Come se ogni gruppo avesse un codice, e mischiarli significasse sovrascrivere tutto, rischiando di perdere la chiave.

Ma è giusto?

Giusto e sbagliato sono parole pesanti, forse troppo.
Più utile è chiedersi: ci fa bene?
Se questa separazione ci aiuta a vivere meglio i rapporti, forse non c’è nulla di male. Ma se diventa una prigione, se cominciamo a sentire il bisogno di interpretare un ruolo per ogni ambiente, allora forse c’è qualcosa da rivedere.

E poi c’è un’altra riflessione che si affaccia: “Con chi mi sento davvero me stesso?”
Se la risposta è “con pochi”, forse vale la pena coltivare quei pochi. Perché non c’è niente di più raro che sentirsi liberi, senza etichette, senza categorie. Solo sé stessi.

E se le persone si incontrano?

Può succedere. Per caso, per scelta, per destino. E in quei momenti si rivela una verità potente: le nostre versioni non devono scontrarsi, possono convivere.
Forse con un po’ di imbarazzo iniziale. Forse con qualche sorriso stirato. Ma, piano piano, anche questo può essere un passo verso un’identità più unificata, più coerente, più leggera.

Non sempre serve dividere per capire. A volte, mettere insieme, anche solo un po’, può farci scoprire qualcosa in più su noi stessi.
Ma va fatto con consapevolezza, con delicatezza. Perché ogni legame ha un linguaggio, e ogni linguaggio merita rispetto.

In conclusione

Suddividere le persone della nostra vita non è sempre un gesto di chiusura. A volte è un atto di amore per sé stessi, un modo per proteggere ciò che si è costruito con fatica.
Ma è importante non diventare prigionieri di quelle stanze separate. Perché, alla fine, la nostra identità è una sola. Anche se parla con accenti diversi… è sempre la nostra voce.



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Frank Perna

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