Quando il giudizio corre più veloce della verità
C’è un fenomeno che, un tempo, si manifestava in luoghi precisi e delimitati: i tribunali, le aule di giustizia, le indagini, gli atti ufficiali. Lì si giudicava. Lì si pesavano prove, testimonianze, responsabilità. Ma oggi, quel confine si è dissolto. E il giudizio si è spostato altrove: nei commenti, nei video virali, nei titoli a effetto. È nato un tribunale invisibile, ma potentissimo: il tribunale dei social.
Qui non servono prove, solo impressioni. Non servono atti, bastano reazioni. Un video di pochi secondi, una frase estrapolata, una foto decontestualizzata, e subito la rete si mobilita. Si formano schieramenti, si accendono fiaccole digitali, si pronunciano sentenze. Non importa che l’intera vicenda non sia ancora chiara, o che esistano sedi deputate a chiarirla. Il tempo dei social è istantaneo, e con esso lo è anche il giudizio.
Così succede che una persona venga marchiata. Che venga esposta, umiliata, minacciata — anche se poi, magari, risulterà estranea, innocente, travisata. Ma intanto è accaduto. E quello che i social hanno inciso a colpi di condivisione, spesso rimane, anche dopo la smentita, anche dopo il chiarimento. La memoria del web non ha il dono dell’oblio.
Chiunque può trovarsi dall’altro lato. Un volto in un frame sbagliato, un gesto frainteso, una voce fuori contesto. Basta poco, pochissimo. E se anche si è del tutto innocenti, può non bastare più. Perché l’eco dell’accusa corre più veloce della voce della verità.
Il problema non è solo la rabbia. È l’automatismo con cui molte persone si aggregano alla massa senza chiedersi: “So davvero quello che sto condividendo? Ho letto, compreso, atteso?” La condivisione è diventata un riflesso, e con essa la responsabilità si frammenta, si disperde, come se non appartenesse a nessuno.
Ma ogni click è un gesto. Ogni commento è un atto. Ogni “sentenza popolare” affrettata è un pezzo di reputazione che può cadere addosso a chi, magari, non ha colpe.
Questo non significa ignorare i fatti, o non dare voce alle vittime. Significa però riconoscere che la giustizia, quella vera, ha bisogno di pazienza, di metodo, di equilibrio. E che sostituirla con l’istinto del “subito” e del “virale” è un gioco pericoloso. Non per chi sbaglia — ma per chi, pur non avendo sbagliato nulla, finisce sotto i riflettori sbagliati.
La verità non sempre è immediata. Serve il tempo di indagare, il dovere di aspettare, il coraggio di tacere, se non si sa. Anche solo per rispetto. Anche solo per evitare di diventare — inconsapevolmente — parte di un meccanismo che può distruggere vite, non salvarle.
Perché la vera giustizia non è mai figlia della fretta.
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Frank Perna
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