10 maggio 2025

Le Parole Che Restano

Alcune parole cambiano con il tempo. Altre resistono. Forse perché descrivono il mondo. O forse perché lo decidono.



C'è qualcosa di silenzioso e insieme potente nel modo in cui cambiano le parole. A volte si evolvono, a volte scompaiono. Alcune sembrano adattarsi al tempo, altre si dissolvono lentamente, come foglie d’autunno. E poi ci sono quelle che resistono, che non si lasciano cambiare. Non sempre per caso.

Da tempo ormai la lingua italiana è attraversata da una corrente sottile ma incessante: quella delle parole straniere, soprattutto inglesi, che si infilano nei discorsi, negli annunci pubblicitari, nei titoli di giornale, persino nel lessico quotidiano. Parole come “meeting”, “feedback”, “smartworking”, “trainer”, “performance”. Le si usa senza più pensarci, come se fossero sempre state lì.

Intanto, altre parole, più antiche, forse più goffe, o semplicemente meno alla moda, sono scivolate via. Termini come “elaboratore” o “calcolatore” sono stati sostituiti da “computer”, mentre “telefonino” ha lasciato spazio allo “smartphone”. Anche nei giochi, nelle chat, nei luoghi digitali in cui si incrociano persone da tutto il mondo, chi parla italiano spesso non si presenta nemmeno più come tale: si adatta subito all’inglese, come se usare la propria lingua fosse un ostacolo o una timidezza.

È interessante notare, però, come questa tendenza non sia altrettanto marcata in molte altre lingue romanze. In spagnolo, in portoghese, in francese, in rumeno, si percepisce ancora un certo orgoglio linguistico, una volontà, magari silenziosa, ma costante, di mantenere il proprio lessico anche nel mondo tecnico o tecnologico, laddove invece in italiano si è più propensi ad accogliere il termine inglese in forma pura. È facile pensare che le parole tecniche debbano arrivare necessariamente dall’inglese, ma la realtà è che altrove si è fatto uno sforzo, anche culturale, per conservarne una forma nazionale. Il fenomeno sembra quindi colpire in modo particolare l’italiano, come se il nostro idioma fosse più vulnerabile al fascino (e al peso) della lingua dominante.

Eppure, alcune parole italiane restano. Non si toccano. Non si traducono, né si abbandonano. Parole che designano ruoli, status, posizioni. Termini che marcano le differenze: principiante, dilettante, professionista, élite, autorità, popolo. Queste no, queste restano. Resistono, quasi a voler ricordare la loro funzione. Forse perché più che parole sono confini. E i confini, si sa, servono a chi deve distinguere. A chi deve decidere chi sta dentro e chi resta fuori.

È curioso notare come il linguaggio si lasci plasmare senza resistenze in molti ambiti, specie quelli dove la modernità si fa simbolo, come la tecnologia o la moda, ma si faccia improvvisamente conservatore in altri, come quando si tratta di affermare una gerarchia, un ordine, una divisione. È lì che l’italiano sembra risvegliarsi, come se volesse ricordare a tutti il suo peso, la sua forma precisa, il suo valore. Non perché più vero, ma forse perché più utile a mantenere una struttura.

Non si vuole insinuare qui nessuna verità assoluta. Solo osservare. Soffermarsi su una sensazione: quella che alcune parole cambino perché fa comodo cambiarle, mentre altre restino proprio perché fa comodo lasciarle così come sono. Forse perché certe parole non servono a descrivere, ma a comandare. Non a spiegare, ma a distinguere.

E così ci si ritrova a parlare un italiano mezzo svanito e mezzo ostinato. Un idioma che assorbe parole altrui quando servono, ma che ne custodisce gelosamente altre, proprio come si conserva un simbolo, o un marchio. Il linguaggio, del resto, non è solo uno strumento per comunicare. È anche, e forse soprattutto, un modo per esercitare potere.

“Chi controlla il linguaggio, controlla il pensiero”, scriveva George Orwell nel suo 1984.

E in fondo, tutto inizia sempre da una parola.
Quelle che non descrivono soltanto il mondo.
Quelle che, a volte, lo decidono.

Sta a noi scegliere se usarle per dividere o per comprendere.
Per mantenere un confine, o per aprire uno spazio.
Per costruire, forse, un mondo migliore.



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Frank Perna

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