Quando l’abitudine scompare, anche le sicurezze acquisite possono svanire. Una riflessione sul valore della costanza nelle piccole cose.
Ci sono situazioni che non richiedono grandi sforzi, eppure riescono a farci vacillare.
Non perché siano oggettivamente complesse, ma perché ci colgono fuori allenamento. Piccoli gesti, normali per chi li vive ogni giorno, possono diventare per altri una fonte di disagio, di timore, persino di ansia.
Non si tratta di vere e proprie difficoltà, quanto piuttosto di abitudini perdute. O mai costruite.
A volte, basta il pensiero di dover affrontare qualcosa di semplice, una chiamata, un viaggio, una richiesta, per sentire un nodo allo stomaco che non ha proporzione con ciò che si dovrà realmente fare.
E il paradosso è proprio lì: si sa già che, una volta fatto, non sarà stato poi così grave.
Che l’ansia era sproporzionata. Che tutto è andato liscio. Ma alla successiva occasione, se è passato troppo tempo, la sensazione ritorna. Identica. Come se l’esperienza precedente non avesse lasciato traccia.
È il prezzo dell’intermittenza.
La mancanza di continuità ci rende vulnerabili, anche di fronte a ciò che conosciamo. Quando un gesto non viene ripetuto, non diventa sicuro. Rimane lì, instabile, e ogni volta bisogna ricominciare da capo.
Ecco perché certe situazioni banali possono sembrare montagne: perché non sono state integrate. Sono visite occasionali in un territorio sconosciuto.
Ma questa condizione non riguarda solo le azioni.
Si manifesta anche nel modo in cui si vive. In certe realtà, ad esempio, si è costretti a sviluppare attenzione, intuito, prontezza. Abilità che diventano riflessi, che si esercitano nel quotidiano. Poi, quando quelle condizioni cambiano, ci si rilassa. Ed è giusto così. Ma nel rilassarsi si perde qualcosa. Quell’allerta costante che un tempo sembrava un peso, in realtà teneva sveglia una parte di noi.
E non è nostalgia di ciò che era.
È solo consapevolezza di come il contesto ci forma, e di come il tempo, lentamente, ci smussa.
Ci si abitua alla semplicità. Alla sicurezza.
Ma la semplicità continuativa può diventare, a sua volta, un disallenamento.
Così, quando qualcosa di inaspettato ritorna, anche se già vissuto, ci si sente spaesati. La mente vacilla, la sicurezza si incrina, e si ricade in quello stesso meccanismo: il corpo trattiene il respiro, anche se la ragione sa che non serve.
Questo non significa che bisogna vivere sempre in tensione.
Anzi. Significa piuttosto che certe paure non vanno giudicate con durezza. Sono il riflesso di un’abitudine che manca. Non una fragilità, ma una pausa troppo lunga.
E allora, forse, la chiave sta nel riconoscerlo.
Nel sapere che non c’è nulla di sbagliato se qualcosa di semplice ci mette in difficoltà. È solo una parte di noi che ha bisogno di essere riattivata. Non servono grandi prove, solo piccoli ritorni.
Perché ciò che oggi sembra difficile, domani può tornare ad essere familiare. Basta ritoccare quel gesto. Riavvicinarsi. Riscendere sul campo, anche solo per pochi passi.
Perché nulla educa come l’esperienza.
E nulla si dimentica più facilmente di ciò che non si ripete.
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Frank Perna
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